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Sapelli: “L’ingegner Scaglia? Competente e trasparente”


A colloquio con il professor Giulio Sapelli, docente di Storia Economica all’Università Statale di Milano: “A metà anni Novanta, in aeroporto cercò di spiegarmi le potenzialità del wireless. Riusciva a vedere lontano… ”



 

Uno prende l’aereo, torna di corsa, si mette a disposizione dei magistrati e questi lo mettono in gattabuia. Sta qui l’assurdo. Se anche per un comportamento del genere, così limpido, non vale il principio della presunzione di innocenza, allora quando vale?. È indignato il professor Giulio Sapelli, docente di Storia Economica all’Università Statale di Milano. “Non ho mai lavorato personalmente con Silvio Scaglia – aggiunge – ma ho avuto con lui un paio di incontri molto originali”.








Ci dica, professor Sapelli…

Ci siamo incontrati un paio di volte in aeroporto, ricordo in particolare una mattina di nebbia a Linate, o forse Malpensa, credo a metà anni Novanta, parlammo di informatica e tlc, poi lui cercò di spiegarmi le potenzialità del wireless. Riusciva a vedere lontano.


Ebbene?

Notai subito una grande passione. Naturalmente sapevo che lavorava con persone a me vicine professionalmente e conoscevo i loro giudizi sull’ingegner Scaglia: competente, capace e trasparente. Inoltre, mi faccia aggiungere, lavoro da decenni come formatore, fin dai tempi di Adriano Olivetti, e mi creda, per giudicare le persone mi basta annusarle. Poi ho anche capito che è uno che legge molto. E, da divoratore di libri, ho sentito subito una sintonia.


Mai più rivisto?

Vado a memoria, mi sembra che all’epoca Scaglia fosse in Omnitel, dove anche io svolgevo una consulenza, ma lo ripeto, non abbiamo mai avuto un confronto professionale diretto. Quel che però mi veniva detto è che godeva di una fortissima considerazione da parte di tutti i manager e i collaboratori con cui lavorava. Il punto però, mi faccia dire, è un altro: è la legge che dà dignità all’uomo. Senza legge dove saremmo? Mi sembra che nel suo caso si stia commettendo un vero abuso.


A colloquio con Sophie Nicolas Rossetti


A colloquio con Sophie Nicolas Rossetti, moglie di Mario Rossetti, l’ex direttore finanziario Fastweb ai “domiciliari” dal 7 giugno: “Guardo al 23 novembre – dice – con la speranza che il momento della chiarezza si stia avvicinando e finalmente verranno accertate, dove ci sono, le responsabilità



Edward Hopper, Sun in an empty room, 1963

 

 

Signora Rossetti, come vive il fatto che il prossimo 23 novembre inizierà il processo?


L’inizio del dibattimento la prossima settimana segna finalmente la fine di un periodo di incertezza assoluta. Sono passati nove mesi dall’arresto di mio marito, e ancora non è stato possibile  difendersi dalle accuse. La sfortuna di Mario non è stata soltanto quella di essere coinvolto in una vicenda assurda perché come  direttore finanziario di Fastweb “non poteva non sapere”, ma anche quella di ritrovarsi  coinvolto in  un procedimento di dimensioni eccezionali, sia per il numero di persone tirate in ballo che per la mole di documentazione.


Con quali effetti?


Almeno due: il primo è che non è stato possibile un approfondimento delle singole posizioni perché sino ad oggi si è valutata l’impostazione dell’inchiesta nel suo complesso; il secondo effetto è la dilatazione di tutti i tempi del procedimento. E ancora oggi non sappiamo quando finirà la sua  privazione di libertà, nonostante i casi previsti dal codice penale per la carcerazione preventiva siano molto specifici e limitati.


Nella sua vita quotidiana e in quella dei suoi figli cosa è cambiato?


Posso dire che se gli arresti domiciliari sono sicuramente meglio della carcerazione, restano sempre arresti dove la privazione della  libertà incide sulla vita di  tutta la famiglia:  nessuno può venirci a trovare, persino i  miei figli di 10, 9 e 3 anni non possono vedere i loro amici  a casa, mio marito da sei mesi non può neanche uscire per una passeggiata e può comunicare solo via lettera;  oltre alla quotidianità della famiglia, sto gestendo anche tutti gli aspetti legati all’inchiesta e, non ultimo, quello dei sequestri che abbiamo subito. Questo perché, come misura preventiva, tutti i nostri beni sono stati sequestrati e sottoposti a custodia giudiziaria. La nostra vita è  stata stravolta da un giorno all’altro, venendo meno ogni tipo di certezza.


Crede ancora nella giustizia?


Certo che mi aspetto giustizia, ma tutto questo mi ha portato a riflettere su come sia cambiata da febbraio ad oggi la mia percezione dello Stato, delle istituzioni che ho sempre pensato difendessero una famiglia come la mia e che invece hanno preso il controllo della nostra vita. Oltretutto io  sono francese e il rapporto dei cittadini con la giustizia nel mio paese è sicuramente più sereno.


In Italia, invece?


Mi chiedo chi mai restituirà tutti questi mesi di vita alla mia famiglia e a mio marito in particolare,  dove la vera violenza è stata isolarlo da tutto il  mondo di relazioni, con l’eccezione del nucleo familiare stretto. Si figuri che anche per parlare o vedere i propri genitori è stata necessaria un’autorizzazione specifica. Spesso abbiamo parlato con Mario di come i tempi della giustizia siano diversi da quelli di una giornata della gente comune; tutto si dilata, sembra che nessuno pensi a cosa significhi anche un giorno di più vissuto in uno stato di privazione della libertà.


Ora però si andrà in aula…


Il fatto che dai magistrati inquirenti sia stato chiesto e ottenuto il giudizio immediato, che dovrebbe essere un procedimento che garantisce agli imputati tempi brevi del procedimento in casi di responsabilità evidente, in realtà non ha comportato un’accelerazione dei tempi perché sono passati oltre 3 mesi dal 10 agosto senza che il processo sia ancora iniziato. Nei fatti, il venir meno dell’udienza preliminare ha determinato solo venir meno un grado di garanzia per gli imputati.  Ecco perché guardo al 23 novembre con la speranza che il momento della chiarezza si stia avvicinando e finalmente verranno accertate, dove ci sono, le responsabilità dei singoli. Ma è solo la mia speranza. A volte temo che prima che si possa definitivamente scrivere la parola fine tutto a questo passerà ancora molto tempo, forse anni.


Ferragosto in carcere

On. Bernardini: “I nostri istituti? Sono illegali”. “A Favignana – spiega la deputata radicale – ci sono le gabbie come allo zoo. E all’Ucciardone è perfino vietato possedere una dama”. Intanto il numero dei detenuti corre verso quota 70mila, mentre circa il 40% è ancora in attesa di giudizio.


Un caos di umanità, in condizioni disumane. È la fotografia drammatica delle carceri italiane nell’anno di grazia 2010. I numeri: oltre 68mila detenuti in spazi per 45mila, di cui quasi il 40% in attesa di giudizio. Un sovraffollamento di cui non si scorge via d’uscita, considerando che ogni mese il numero di nuovi reclusi supera quello di chi esce. “Senza contare i casi peggiori – spiega l’on. radicale Rita Bernardini, membro della Commissione Giustizia della Camera – come l’Ucciardone, dove convivono fino a 10 detenuti in 20 metri quadrati, per 21 ore al giorno”.



 

La deputata Bernardini è reduce dal “tour de force” che l’ha portata a visitare ben otto carceri in quattro giorni. Quest’anno, anzi, la tradizionale “visita collettiva” di Ferragosto promossa dai radicali ha raggiunto punte record: 230 persone fra deputati, consiglieri regionali e qualche magistrato di sorveglianza, hanno varcato la soglia degli istituti penitenziari italiani. Un buon viatico, si spera, per quando al Senato si discuterà il ddl Alfano che dovrebbe svuotare un po’ le celle. “Non sarà una battaglia facile – aggiunge Bernardini – perché rispetto al primo testo che avrebbe potuto far uscire 15-20mila detenuti (facendo scontare fino a 12 mesi di pena ai domiciliari ndr.) sono intervenute limitazioni che abbassano drasticamente il numero: col testo attuale andrebbero ai domiciliari forse 2mila persone: troppo poche”.


On. Bernardini, ancora un Ferragosto in carcere: ma c’è almeno qualche buona notizia?

Magari ci fosse. Anzi, per cortesia, mi faccia dire che cosa ho visto alla Favignana.


Prego…

Il peggio del peggio. Ho visto gli “internati”, i cosiddetti “ergastolani bianchi”, persone che hanno già finito di scontare la pena ma non vengono rilasciati per ragioni di sicurezza. Dovrebbe essere una casa di lavoro, peccato che il lavoro non c’è. In realtà, spesso si tratta di ex tossici o malati psichici. La cosa più terribile è il “reparto di osservazione”.


Cioè?

Sono come delle gabbie allo zoo, senza finestre e con la grata all’aperto. Ho potuto parlare con un detenuto rinchiuso, sui 35 anni, la bocca impastata, evidentemente sedato ma abbastanza lucido. Gli ho chiesto come mai è lì, mi ha risposto “Ho fatto solo qualche furtarello per pagarmi la droga. Ci sono ricascato, ma ora vorrei andare in Comunità. Che ci faccio qui?”. Mi ha anche detto che vorrebbe andare a trovare la madre anziana e malata, ma non gli viene concesso. In quasi 30 anni di visite alle carceri ne ho viste tante, ma questa l’ho trovata terribile.


Lei è stata anche nel carcere di Termini Imerese. Cosa ha visto?

Il solito disastro, sovraffollamento, poco personale e la completa inattività dei detenuti. Ma non è solo Termini, sono le pecche di tutte le nostre carceri: certo, c’è rinchiusa gente colpevole, che ha sbagliato, ha commesso delitti, ma come ci si può illudere di recuperarli a una vita normale se li si fa vivere in condizioni disumane? Non c’è lavoro, le attività scolastiche in estate sono sospese, vivono ammassati. La cosa assurda è che non possono nemmeno andare a giocare a calcetto perché non c’è il personale che li possa accompagnare. Per non parlare di quelli in attesa di giudizio: bisogna ripensare completamente la carcerazione preventiva. La legge non è sbagliata ma i magistrati la interpretano come gli pare. Bisogna intervenire anche su questo. È un’anomalia tutta italiana.


 

Ma è vero che all’Ucciardone non è nemmeno permesso avere una dama? Vincino, che l’ha seguita nella visita, dice che ne è rimasto sconvolto…

Purtroppo è vero: te le sequestrano e non sono fra gli oggetti che puoi comprare.


Che fare?

Come radicali mettiamo a disposizione perfino il nostro corpo: solo dopo mesi di digiuno abbiamo ottenuto che il ddl Alfano andasse in discussione alla Camera. Quest’anno abbiamo coinvolto oltre 200 soggetti politici nella visita di ferragosto. Spero che si possano raccogliere dei frutti. Cose da fare ce ne sarebbero moltissime: ridurre il sovraffollamento, offrire lavoro, aumentare il personale, dare spazio alle misure di pena alternative; mandare i “tossici” nelle comunità: costerebbe meno del carcere e potrebbero tornare alla normalità. In generale, favorire il mantenimento delle relazioni con la famiglia. Le faccio un esempio: in base a una circolare di qualche mese fa i detenuti stranieri possono telefonare anche a un numero cellulare e non soltanto fisso, purché intestato a un familiare. Ebbene, ho scoperto nelle mie visite che molti nemmeno lo sapevano.


Ma il personale delle carceri, dai direttori agli agenti di polizia penitenziaria fanno adeguatamente il loro dovere?

Sicuramente, c’è attenzione, sensibilità e ci sarebbe la voglia di lavorare meglio e in luoghi più dignitosi. Ma manca il personale. Fanno quello che possono. Almeno per la stragrande maggioranza.



Intervista a Marco della Noce: “Zeligtube? Sarà un grande veicolo di creatività”

silvioscaglia.it intervista  Marco della Noce, in arte “capo meccanico” del box delle Rosse


Ma anche a Maranello guardate Zeligtube? “Come no, abbiamo messo i video sulle macchine, così i piloti sono più allegri. Prendono certe curve che è uno spasso”. Marco della Noce, in arte Oriano Ferrari, è il mitico capo meccanico del box delle Rosse, uno dei comici più amati dal pubblico dello Zelig, dove appare anche con altri personaggi leggendari come il comandante delle squadre speciali dei Nocs o il mitico Larsen. L’appuntamento col cronista è all’uscita di una stazione della metropolitana di Milano. E fin dall’inizio non è facile distinguere il comico dalla persona. L’importante è stare al gioco…



Ma perché il metro? Dov’è parcheggiata la Ferrari?

E’ che abbiamo un problema di affidabilità negli ultimi tempi. Il prossimo Gran Premio mi sa che lo faremo con i vagoni del metrò, e allora sono venuto qui per i collaudi.


Ma cosa ne pensa Montezemolo?

Il Luca Corsero adesso è un po’ invidioso, voleva avere lui l’idea di Zeligtube. E invece gliela hanno soffiata. L’ho visto al compleanno di Moira Orfei, aveva indosso i suoi bei boxer rossi e cercava di fare un video per gli aspiranti comici. Lui ci tenta, ma non ci riesce. Eppure di esperienze ne ha fatte…


C’era pure Lapo?

Lapo lo abbiamo visto giù a Maranello. Continuava a lamentarsi, a dire che la pista era corta. Gli abbiamo dovuto spiegare che non si può allungarla così, in quattro e quattr’otto.


Ma è vero che avete smesso di fare scherzi ai piloti?

In effetti con Lalonsa…


Vuol dire Alonso?

Eh, sì, con Lalonsa abbiamo smesso, non ci si diverte più, anche con Massa poverino che somiglia sempre più a Barrichello…


Altri tempi con Schumacher….

Eh, sì, con Socmacher era un’altra cosa, adesso in Mercedes gli hanno messo l’armadietto dei medicinali nella macchina, così non deve fare ogni momento il pit stop


Anche lui vuole fare un video per Zeligtube?

Certo, glielo abbiamo chiesto noi, si è messo davanti alla telecamera e ha detto tre parole ma non siamo mica riusciti ancora a tradurle…


Una domanda seria: cosa ti aspetti da Zeligtube?

E’ una roba che mi entusiasma, finalmente si potranno fare cose senza nessuna censura. Tutti i comici saranno liberi di sperimentare. Ti viene un’idea? Eccola pronta. Un nuovo personaggio? Eccolo. Non si dovrà più aspettare qualcuno che te lo visiona, e poi non succede nulla. Con Zeligtube sarà un’altra cosa, un grande veicolo di creatività, puoi metter lì il tuo video e il pubblico decide se gli piace.


Un consiglio per gli aspiranti comici?

La comicità è un istinto, è una corda che hai dentro. Oppure no. Però adesso tanti giovani avranno una vetrina. Quelli come me, più avanti con l’età, potranno sicuramente offrire dell’esperienza. In cambio mi aspetto l’entusiasmo di chi si butta la prima volta.


Un sogno?

Fare la cronaca di un Gran Premio di Formula Uno, a modo mio, chissà magari su Zeligtube



Osservatorio Corte Europea dei Diritti Umani: Italia da tempo sotto la lente della Corte


“Cominciamo col dire che se migliaia di detenuti italiani facessero ricorso alla Corte di Strasburgo otterrebbero due cose: la condanna del governo italiano e un congruo risarcimento”.  A dichiararlo, senza timore di smentita, è l’avvocato Anton Giulio Lana, presidente dell’Osservatorio CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’uomo). “L’Italia – aggiunge – è da tempo sotto la lente della Corte per violazione dell’articolo 3 della Convenzione”.

 

Avv. Lana, ci spieghi meglio?

L’articolo 3 fa riferimento, tra le altre cose, alle condizioni di detenzione. Ad esempio, all’eccessivo sovraffollamento di un carcere che, a certe condizioni, può determinare un “trattamento degradante”. In particolare nel 2009 c’è stata la pronuncia della Corte europea che ha condannato l’Italia a mille euro di risarcimento nei confronti di Izet Sulejmanovic, un cittadino bosniaco in prigione per furto, ricettazione e falso. E’ una condanna che stabilisce un precedente: non si possono tenere troppe persone in celle piccole, sovraffollate, con servizi indecenti.


Avv. Lana, quindi ci potrebbe essere un ricorso in massa…

Teoricamente sì, per tutti quelli che vivono condizioni di degrado simili a quelle di Sulejmanovic. E sappiamo che sono la maggioranza dei detenuti italiani. Purtroppo va aggiunto che la Corte è vittima del suo successo, ogni anno i ricorsi crescono vertiginosamente e per arrivare a sentenza ci vogliono tre o quattro anni. Inoltre registro molta disattenzione dei media su questo. Infine molti avvocati non hanno la mentalità per condurre simili battaglie.


Ma perché l’Italia è stata condannata?

Perché Sulejmanovic è stato detenuto in due celle dove disponeva rispettivamente di 2,7 e 3,5 metri quadrati. Una condizione giudicata “degradante” dalla Corte.


Eppure adesso i detenuti sono quasi 70.000, un record della storia della Repubblica…

Appunto, si potrebbero fare decine di migliaia di ricorsi. Vorrei precisare: non contro questo governo, ma contro tutti i governi che hanno lasciato marcire i problemi


Cioè?

La giustizia in Italia è lenta, questo è il punto. Per accelerarla bisognerebbe investire in cancellieri, segretari, computer, e pure in giudici. E invece si fanno leggi. Chiunque arriva fa qualche legge, come se non ne avessimo abbastanza. Io dico: meno leggi e più risorse. Altrimenti è una presa in giro.


Gli eccessi di custodia cautelare nascono anche da questo?

In qualche modo ne sono una conseguenza. Non dico che sia sempre così, ma troppo spesso abbiamo assistito a un uso abnorme della carcerazione preventiva, a una distorsione dei suoi meccanismi.


Che fare?

Lo ripeto, anche se sono consapevole che rischia di essere una provocazione poco ascoltata. Ma se qualcuno prendesse l’iniziativa di un ricorso di massa, di decine di migliaia di ricorsi, forse qualcosa si smuoverebbe.


Gianni Riotta a silvioscaglia.it: la lunga attesa del processo e’ una pena ingiusta



Anche Umberto Eco, ricorda “Il Sole 24 Ore”,  si è chiesto a suo tempo che senso avesse tenere in prigione Silvio Scaglia. “Ora  viene da dire – continua il quotidiano della Confindustria – perché lasciare in prigione da cento giorni il suo ex sottoposto Mario Rossetti”?.  Domanda più che legittima, alla vigilia dell’attesa udienza del tribunale del Riesame, fissata per lunedì 7 giugno, e senza dimenticare che Scaglia, dopo la scarcerazione, resta agli arresti domiciliari.



Ne parliamo con il direttore del “Sole 24 Ore” Gianni Riotta che, tra l’altro, può vantare una lunga esperienza professionale negli Stati Uniti, “sistema tutt’altro che perfetto ma che in materia di rapidità e di certezza ha molto da insegnarci perché, in casi come questi, la lunga attesa del processo è una pena, ingiusta, in più”.


Direttore Riotta, che idea si è fatta di questa lunga carcerazione preventiva? Non sembra che sia stato tempo dedicato alla raccolta di eventuali prove. O no?

“Mi permetto di citare un altro caso emblematico, quello che riguarda l’amico Ottaviano  Del Turco che venne imprigionato nella primavera del 2009.  Quell’inchiesta ha determinato le dimissioni della giunta, il cambio della segreteria regionale del partito, infine il ribaltone elettorale. Ebbene, ad un anno da quegli avvenimenti Ottaviano Del Turco non è stato nemmeno rinviato a giudizio. E che succede se viene prosciolto? Che cosa raccontiamo agli elettori abruzzesi, vittime di queste decisioni?”


Insomma, si rischia di finire in un vicolo cieco.

“E’ il motivo per cui i cittadini, sia di destra che di sinistra, di pelle non si fidano della giustizia italiana. Al di là delle polemiche politiche nessuno vuole avere a che fare con un sistema che, come sta avvenendo a Mario Rossetti, ti mette dentro e ti lascia in galera per un tempo indefinito.  Lo stesso vale per la giustizia civile: nessuno pensa di poter risolvere una lite, per esempio, di condominio in tempi ragionevoli”.


Direttore Riotta, lei vanta una lunga esperienza negli Usa. Sarebbe concepibile la vicenda di Scaglia o di Rossetti oltre oceano?

“ No. Premesso che quella americana non è certo una giustizia esente da pecche, ci sono almeno due elementi  su cui val la pena meditare. Primo, la rapidità della fase istruttoria. IL caso Madoff è esemplare: accertamento del reato, incriminazione, processo ed immediata condanna. Secondo,  non è concepibile che si aprano, si chiudano e si riaprano i procedimenti  salvo casi eccezionali. Non è possibile, tanto per intenderci, che  dopo un’archiviazione ci sia una fase due, tre o anche quattro. La giustizia americana, ripeto, ha tanti difetti, a partire dal costo della difesa che gioca a favore degli imputati più abbienti rispetto agli altri. Ma ha molto da insegnarci in materia di certezza e di rapidità. Il caso di un cittadino parcheggiato in carcere in attesa di non si sa quale atto d’indagine non è ammissibile. L’incertezza del diritto, come ci insegnano tutte le ricerche in merito, è ormai la prima causa che tiene lontani gli investitori internazionali dal nostro Paese”.


Direttore, si ha la sensazione che l’imputato, soprattutto se non emerge una prova vera della sua colpevolezza, rischi di finire in una sorte di diritto dormiente. O meglio, addormentato. E’ così?

“Mi auguro vivamente che non sia il caso di Mario Rossetti o di Silvio Scaglia. Spero che, anche grazie all’azione di controllo del mondo dell’informazione, la giustizia nei loro confronti  sia rapida.  L’attesa del processo è comunque una pena che viene inflitta all’imputato. Ed è una pena odiosa ed ingiusta soprattutto per chi, poi, verrà assolto. L’inefficienza è comuqnque la pima ingiustizia ”.


Custodia cautelare: basta con gli abusi

“Sta per esplodere una bomba umana”.


L’avvocato Giandomenico Caiazza, presidente della Camera Penale di Roma, lancia l’ennesimo allarme sul sovraffollamento delle carceri, e annuncia “proposte concrete” in un convegno che si terrà nella città giudiziaria della capitale il 7 luglio. Mentre sul caso Scaglia aggiunge: “E’ incomprensibile che venga trattato così chi si è messo a disposizione dell’autorità giudiziaria”.



Avv. Caiazza, quanti sono ad oggi i detenuti rinchiusi nelle carceri italiane?

La cifra esatta non è disponibile, ma si sa che nel mese di maggio si è superata quota 68.500: un record assoluto in tutta la storia della Repubblica italiana. E’ una bomba umana che rischia di esplodere da un momento all’altro, che va oltre ogni limite di tollerabilità. Ogni mese entrano in galera circa 1.000 persone e ne escono 400. Anche i direttori delle carceri sono disperati, non sanno più che pesci prendere.


Insomma, siamo ancora una volta in piena emergenza?

L’indulto del 2008 aveva svuotato gli istituti di circa 20mila soggetti, facendo scendere la popolazione carceraria da 60 a 40mila persone. In due anni siano tornati al punto di partenza, anzi peggio. Ora ci sono 8mila detenuti in più di allora. Si sa che il limite di capienza di tutti gli istituti italiani è di 45mila, mentre il cosiddetto limite di tollerabilità è di 63mila. Nel frattempo, di tutte le nuove carceri che si dovevano costruire non è ancora stata messa una pietra. Poi si scopre che da qualche parte, come nel carcere di Fuorni a Salerno, c’è un intero piano con le celle vuote, perché il personale è sotto organico.


Ma come mai in soli 24 mesi la popolazione dei detenuti è cresciuta del 70 per cento. Cosa succede?

Purtroppo la situazione è legata ad alcuni provvedimenti presi dal governo. Mi riferisco alla ex Cirielli e al decreto sulla sicurezza. Nei fatti questi due provvedimenti hanno profondamente ristretto l’ambito di applicazione delle misure alternative alla pena “intramuraria” come l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà, ecc.


Quanti sono i provvedimenti di custodia cautelare? Per capirci, i detenuti in attesa di giudizio?

La custodia cautelare riguarda circa 26mila soggetti, quindi il 40% dei detenuti. Anche qui le cifre nude dicono molto, ma non dicono tutto. Il punto è che si è fatto e si continua a fare un abuso di questa custodia. La prassi giudiziaria negli ultimi due decenni in particolare ha modificato la sua funzione, fino a stravolgerla: da strumento di cautela, quale voleva essere, è diventato uno strumento di deterrenza sociale. E come se il magistrato dicesse: se ti prendo sappi che ti tengo dentro, praticamente è diventata un’anticipazione della pena.


Ma non ci vogliono i gravi indizi?

Certamente, ma anche su quelli il concetto si è trasformato. La legge parla chiaro: ti posso tenere in galera se c’è il rischio che scappi, che inquini le prove o che reiteri il reato. E’ una legge perfetta. Peccato che nella applicazione concreta è cambiato tutto.


Cioè?

Le faccio un esempio. La legge prevede che il pericolo della reiterazione del reato deve essere concreto. Ma se il direttore di una Asl viene arrestato, si dimette, poi si dimettono i funzionari a lui collegati, poi si nomina un nuovo direttore, poi si cambia il sistema informativo che c’era in precedenza, mi si vuole spiegare come fa a reiterare il reato? Eppure succede che spesso si specula sulla possibilità di reiterazione del reato.


Perché?

Perché l’altra condizione, cioè l’inquinamento delle prove, esige tempi certi di galera. In altre parole: la legge dice che se tieni dentro uno perché può inquinare le prove devi dare dei tempi certi di carcerazione, mentre se dici che il soggetto potrebbe reiterare il reato hai più spazio per tenerlo in cella. In pratica molti magistrati travestono le cose, anche quando mancano di reale concretezza. E purtroppo molte sentenze dei Tribunali della liberà o della Cassazione avallano queste condotte dei pm.


Ma allora che fare?

Una delle proposte che discuteremo nel convegno è proprio questa: che in relazione alla reiterazione del reato non sia prevista la custodia cautelare, ma gli arresti domiciliari, magari ammettendo delle eccezioni. Purché siano eccezioni e non la norma. Altrimenti la custodia cautelare diventa un’altra cosa, un percorso afflittivo, diventa una pena anticipata, prima ancora del riconoscimento o meno della colpevolezza.


C’è altro?

Certo, proporremo che si faccia un passo indietro, che vengano abrogate le norme che hanno depotenziato le norme alternative alla custodia. Tra l’altro c’è abbondanza di studi in tal senso, compresi quelli del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. I numeri sono chiari: i detenuti che scontano le pene in forma alternativa al carcere hanno una recidiva del 30%, coloro che le scontano in carcere hanno una recidiva del 60 per cento. Dovrebbe bastare.


Che idea si è fatta del caso Scaglia?

E’ un classico esempio di ciò che dicevo prima, anzi è un caso paradigmatico. Risulta incomprensibile una forma di custodia cautelare così estrema, nei confronti di un soggetto che si è messo a disposizione dell’autorità giudiziaria. Mi sembra che nel caso di Silvio Scaglia trovino conferma una prassi e una cultura che sono fuori dall’alveo costituzionale. Il carcere non come ultima ratio, ma come prima soluzione. E nemmeno ti spiegano il perché.









Belpietro: Presto un’iniziativa su Rossetti



“Presto daremo ampio spazio al caso di Mario Rossetti. A dimostrazione che non ci occupiamo solo dei detenuti celebri ma anche degli altri, comunque vittime dell’abuso del carcere preventivo: il trattamento subito dall’ex direttore finanziario di Fastweb dev’essere portato all’attenzione dell’opinione pubblica”.



Parla così Maurizio Belpietro, direttore di “Libero”,  il primo ad aver sfondato, ad inizio aprile con un editoriale, il muro di silenzio sulla custodia cautelare di Silvio Scaglia che ancor oggi, 91 giorni dopo la sua carcerazione, si trova agli arresti domiciliari. “Non ho mai conosciuto Silvio Scaglia – continua Belpietro -  né avevo alcuna ragione speciale per occuparmi di lui. Ma il suo caso mi aveva colpito”.




Perché?

“Per l’assurdità della situazione. Mi aveva colpito il caso di un uomo che rientra dall’estero per mettersi a disposizione dei magistrati e riceve questo trattamento. Senza una ragione qualsiasi. Scaglia di sicuro  non intende né può inquinare le prove. O tantomeno reiterare il reato”.


Insomma…

“Insomma dopo un’inchiesta durata anni e questa lunga, assurda carcerazione preventiva, i magistrati devono dare delle risposte: i soldi sono di Scaglia? Lui e Rossetti sono colpevoli? Allora li rinviino a giudizio e li giudichino. Ma non si può insistere sulle esigenze cautelari, dentro e fuori dal carcere, quando queste non ci sono”.


Ma si è fatto un’idea su quest’ostinazione degli inquirenti?

“Un’idea ce l’ho. Tutto nasce dall’inchiesta sul G8 di Firenze in cui è stato coinvolto il procuratore aggiunto di Roma, Toro”.


Ma qual è il legame?

“La procura romana si è sentita di nuovo a rischio di essere considerata il porto delle nebbie della giustizia italiana. Perciò ha voluto dimostrare di non guardare in faccia a nessuno e di saper colpire anche grossi nomi”.


Utilizzando soprattutto l’arma della custodia cautelare…

“Probabilmente nella speranza di ottenere una confessione. Un uso improprio della custodia cautelare, se non peggio. Il codice non prevede l’alternativa o confessi o non esci. Anzi, l’imputato ha il diritto di non rispondere”.


Tanto, prima o poi, cala il silenzio su questi casi.

“Faremo in modo che ciò non accada”.


Caso Tortora: un ricordo (inedito) dell’avv. Caiazza per silvioscaglia.it

E qualche considerazione su chi ci ha fatto carriera



Il ricordo è nitido e indelebile, nonostante i 22 anni trascorsi da quel lontano aprile del 1988: Enzo Tortora ricoverato in clinica, sdraiato sul suo letto, ormai irrimediabilmente malato, che incarica due giovani legali di chiedere cento miliardi di vecchie lire come risarcimento danni ai pm e ai giudici che lo hanno fatto ingiustamente condannare.



Una cifra enorme, ma solo in apparenza spropositata, con un obiettivo chiaro: che se ne parlasse, che non finisse tutto nel dimenticatoio. “All’inizio eravamo perplessi, ma Tortora era un uomo di grande comunicazione e ci disse: dobbiamo fare rumore, fare notizia, tanto sono soldi che non vedrò mai, ormai mi hanno ammazzato. Ma è importante che la gente sappia, che la gente capisca.”. Tortora morì un mese dopo, il 18 maggio 1988, nella sua casa di Milano, stroncato da un tumore polmonare.



A raccontare l’inedito episodio è l’avvocato Giandomenico Caiazza, oggi presidente della Camera Penale di Roma, allora insieme al collega Vincenzo Zeno Zencovich, investito del difficile compito di portare sul banco degli imputati i magistrati del caso Tortora. “Mi emoziona ancora - prosegue Caiazza – ripensare che Tortora, pur in quella tremenda condizione, riusciva a fare delle battute di spirito, a paragonarsi al signor Bonaventura, un personaggio un po’ strampalato di un fumetto di grande successo che leggeva da bambino. All’inizio di ogni storia il signor Bonaventura era sempre squattrinato, poi alla fine diventava ricchissimo, anzi milionario. Eppure Tortora sapeva benissimo che gli restava poco da vivere”.


Dal danno derivò però anche la beffa. Ai due giovani avvocati toccò infatti la sorte di essere denunciati. Prosegue Caiazza: “Non appena Enzo Tortora morì, come avvocati fummo accusati di calunnia dai magistrati, poi prosciolti. Ma intanto la causa verso i magistrati fu sospesa, fino a quando la Corte Costituzionale dichiarò “incostituzionale” la legge che avevamo utilizzato per muovere la stessa azione di responsabilità”.


Per la cronaca, tutto il castello di menzogne su cui fu costruita la “falsa verità” delle accuse a Tortora è inoppugnabilmente franato. E non solo perché l’ex presentatore televisivo fu assolto definitivamente dalla Corte di Cassazione il 17 giugno 1987, a quattro anni esatti dal suo arresto, ma anche perché il principale protagonista delle accuse, Gianni Melluso (uscito dal carcere nel 2009 dopo averci passato 30 anni), ha finalmente deciso di vuotare il sacco, riconoscendo che si era inventato tutto. Lo ha fatto nei giorni scorsi, con una intervista al settimanale l’Espresso, appena pubblicata, a firma di Riccardo Bocca, dove ammette che fu tutto concordato con altri due boss mafiosi, Giovanni Pandico e Pasquale Barra: “Chiedo scusa, profondamente scusa – dice adesso Melluso – ai familiari di Enzo Tortora. Mi rivolgo soprattutto alle figlie Gaia e Silvia, che hanno patito l’inferno per colpa mia. È difficile che accettino di perdonarmi, lo so, ma sento il dovere di contribuire con la massima onestà a questa storia. Voglio dichiarare una volta per tutte che il presentatore Tortora era innocente”.


Resta il fatto che nessuna azione penale, o anche indagine di approfondimento, è stata mai avviata, e nessun procedimento disciplinare è stato mai promosso davanti al Consiglio Superiore della Magistratura a carico dei pm e dei giudici che hanno condannato Tortora. Anzi le loro carriere sono proseguite come se niente fosse, nemmeno una censura. Per dire dei due pm: oggi Lucio di Pietro è Procuratore Generale a Salerno e Felice di Persia, ex coordinatore della direzione distrettuale antimafia a Napoli, ora in pensione, è Presidente del Consorzio Rinascita del litorale casertano, dopo un breve periodo di amministratore unico della Gisec, società provinciale per la gestione dei rifiuti sempre a Caserta. Mentre il presidente dell’allora collegio dei giudici, Luigi Sansone è da poco andato in pensione, non senza avere raggiunto il grado di Presidente della Cassazione.


Intervista a Pisapia: carcerazione preventiva utilizzata impropriamente


Il professor Vassalli pronunciò una battuta folgorante: il giorno della condanna spesso corrisponde con il giorno della scarcerazione. In questo modo il giurista sottolineò il problema della durata della carcerazione preventiva, talvolta più lunga della pena. Ma, potremmo aggiungere: non di rado il giorno della sentenza corrisponde con quello dell’assoluzione”.

 


Parla così Giuliano Pisapia, penalista, già presidente della commissione Giustizia, da sempre attento critico delle disfunzioni della giustizia.

 

 

Ma  Vassalli parlava ai tempi del codice Rocco. Non è cambiato niente da allora?

“Per la verità sì. Dopo la riforma del 1989 c’è stata un’inversione di tendenza. Ma da un paio di anni si è tornati alla situazione precedente”.


Colpa della legge?

“Assolutamente no! La legge che prevede tre estremi tassativi per la carcerazione preventiva è ottima. Il fatto è che, spesso, le richieste dei pm vanno al di là di questi vncoli, così come le decisioni del giudice che emette l’ordinanza di custodia cautelare. Il risultato è che, sovente, le motivazioni della carcerazione non si basano su fatti concreti, ma su formule di rito”.


Quali sono le ragioni di questa applicazione sbagliata della legge?

“Innanzitutto, la carcerazione preventiva viene spesso utilizzata, impropriamente, come strumento per ottenere la confessione dell’imputato o, comunque, per procurarsi le dichiarazioni attese. Questo, naturalmente, violando la presunzione di non colpevolezza dell’imputato. Ci sono poi valutazioni di carattere culturale”.


Cioè?

“E’ sicuramente convinzione di molti magistrati che è molto difficile arrivare, data la situazione della macchina giudiziaria, ad una sentenza che commini una pena ritenuta equa. Non solo: il 50 per cento delle sentenze viene modificata, il più delle volte diluita,  nei gradi successivi di giudizio. Di qui, sapendo che non ci sarà una punizione, ecco la convinzione che la custodia cautelare sia una sorta di anticipo della pena che comunque non sarà scontata per intero. Anche in questo caso, naturalmente, si viola il principio della presunzione di innocenza”.


E’ un quadro sconsolante da cui emerge una sostanziale sfiducia nella giustizia.

“C’è un terzo elemento, quello determinante: la mancata separazione delle carriere tra inquirenti e giudici. Tra magistrati che hanno la stessa formazione e che percorrono la stessa carriera,  si crea un rapporto che, al di là dell’onestà e dell’imparzialità soggettiva, mette a rischio la terzietà dell’organo giudicante”.

 

La soluzione, dunque, sta nella separazione delle carriere?

“La legge sulla custodia cautelare, ripeto, è perfetta. Ma l’unico modo per arrivare ad una sua applicazione corretta passa per la separazione delle carriere che rispetti il precetto dell’articolo 111 della carta costituzionale”.


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