Il Foglio dedica un lungo ritratto al PM che ha dato il via all’inchiesta sull’Iva telefonica «che rischia la carriera per colpa della P4»


«Classe 1946, sostanzialmente estraneo alla vita correntizia della magistratura, il procuratore dell’antimafia non è il tipo da inchieste spettacolo. Ha la fama del moderato (…). Non è una toga incline alla militanza politica». Ma, nota Marco Pedersini, autore su Il Foglio di un lungo ritratto-inchiesta del procuratore aggiunto antimafia Giancarlo Capaldo, nel suo metodo c’è un eccesso: «la durezza estrema con cui ricorre al carcere preventivo. Il fondatore di Fastweb, Silvio Scaglia (…), ne è testimone, a fronte dei 363 giorni che ha passato in regime di custodia cautelare (per essere interrogato una volta peraltro su sua richiesta)»


 

È l’unico accenno all’inchiesta sull’Iva Telefonica, nel servizio dedicato a questo «schivo sacerdote del diritto, abile a non farsi scottare dal fuoco di inchieste delicatissime, si ritrova tra le mani un’indagine complessa dall’architrave debole (la loggia segreta) ma che potrebbe valere un’intera carriera». Fino a pochi mesi, infatti, Capaldo era dato in “pole position” per la successione del procuratore capo di Roma, Giovanni Ferrara, che andrà in pensione nella primavera del 2012. Un pronostico maturato all’inizio di febbraio del 2010 quando il procuratore aggiunto Achille Toro, già favorito, venne travolto dall’inchiesta fiorentina “Grandi eventi”. È in quelle settimane, tra l’altro, che matura il blitz di quella che impropriamente venne definita la “truffa carosello” basata sull’Iva telefonica.

 

Da allora il procuratore aggiunto Capaldo si è occupato di altre inchieste, ancor più clamorose per gli intrecci tra il mondo della politica e quello degli affari, dalle indagini su Finmeccanica fino al dossier P3, affrontato con la cautela del caso. Perciò, nota Pedersini, «uno non si aspetterebbe di trovare il procuratore al centro dell’inchiesta che rischia di far saltare la maggioranza di governo a pranzo con il ministro dell’Economia, cordialmente attovagliati in una casa dei Parioli». Quella cena, a casa dell’avvocato Luigi Fischetti, riunisce Giulio Tremonti, Giancarlo Capaldo e il consigliere politico del ministro, l’onorevole Marco Milanese, ex ufficiale della Gaurdia di Finanza, all’epoca già indagato nella cosiddetta inchiesta P4.

 

Dopo di che inizia un’estate rovente per il magistrato, la cui reputazione, nota il Foglio «è crivellata di colpi. Il procuratore capo Ferrara, invece di prendere le difese di Capaldo, si attiva perché, con il pretesto della competenza territoriale, i colleghi campani inviino al più presto a Roma tutto il materiale che hanno raccolto sul pranzo a casa Fischetti». Capaldo si difende da quello che, in un’intervista, definisce «il reato (…) di pranzo con un ministro». Intanto, facendo riferimento al nodo della successione in piazzale Clodio, dichiara di non voler credere «alle voci di corridoio le quali sostengono che quanto sta accadendo ruota attorno alla poltrona di futuro capo». «Alcuni cronisti – racconta Pedersini – dicono d’averlo visto a colloquio con il neo ministro della Giustiza Nitto Palma già collega alla procura di Roma. “Caro Nitto, sono un perseguitato credimi, pare abbia detto al ministro».

 

Intanto, ad inizio agosto, Giancarlo Capaldo lascia l’indagine Enav, decisione «che non posso non condividere» commenta il procuratore capo Ferrara. Ma, a sorpresa, invece di chiedere la proroga delle indagini, sempre ad inizio agosto Capaldo e il sostituto Rodolfo Sabelli depositano gli atti dell’inchiesta P3. «Il calendario dice – puntualizza il Foglio – che dal 15 settembre ci saranno venti giorni per eventuali (e improbabili) richieste spontanee di interrogatorio da parte degli indagati, poi si chiederà il rinvio a giudizio e inizieranno le udienze preliminari».

 

Quasi in contemporanea, il giorno 22, riprenderà il processo sull’Iva telefonica arrivato all’udienza n°43. Capaldo, probabilmente, sarà intanto in tutt’altre faccende affaccendato. Resta, però, il segno di «quell’unico eccesso del suo metodo», cioè «la durezza estrema con cui il procuratore ricorre al carcere preventivo».

 

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