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Fattore Umano | Severino: più lavoro ai detenuti

Il ministro a Padova: «Siamo impegnati sul rifinanziamento della legge Smuraglia». E apre alle forme di pena alternative al carcere


«Non sono molto brava a fare promesse però posso dire che c’è un impegno molto serio per il rifinanziamento della legge Smuraglia». Ha esordito così il ministro Severino nel suo intervento di ieri all’incontro sul tema del lavoro come elemento di recupero del detenuto presso l’Università di Padova.


«Il progetto lavoro-detenuti – ha spiegato – merita una riflessione e un impegno seri». Anche perché – ha ricordato il ministro parlando ancora della cosiddetta legge Smuraglia (finanziata annualmente con 4,6 milioni di euro l’anno, ormai insufficienti) – «è stata l’unica forma di attivazione del lavoro carcerario che ha introdotto un modo di lavorare nel carcere utile non solo per i detenuti ma anche per il reinserimento sociale e per le imprese». Niente assistenzialismo o pietismo, dunque, bensì un serio impegno nel mettere a disposizione fondi per questo progetto.


Il ministro della Giustizia Paola Severino ha incontrato anche alcuni imprenditori durante la sua visita nelle due sedi carcerarie a Padova dove il consorzio di cooperative Coop Rebus impiega circa 200 detenuti. Per questi imprenditori – ha raccontato la Severino – «il lavoro in carcere non significa più intrattenere i detenuti per il tempo necessario a tenerli lontani dalla cella, ma abituarli a un lavoro utile, ad un lavoro per il futuro, ad un lavoro che sia già nella società».


Un altro tema toccato dal guardasigilli è stato quello del cronico sovraffollamento carcerario. La ricetta per superare questo problema «è un mix di elementi – ha spiegato –: abbiamo già avuto la legge salva carceri che ha cominciato a produrre qualche effetto perché vi sono stati tremila ingressi in meno relativamente al fenomeno delle porte girevoli». Senza dimenticarsi la questione delle misure alternative alla detenzione, definite dal ministro «il vero modo per affrontare il problema del carcere».


Perché il carcere, ha concluso il ministro, è l’estrema ratio, l’ultima risorsa in questo Paese cui si ricorre «quando gli altri tipi di pena non funzionano». Ma per la Severino ci sono anche «casi in cui si potrebbe ricorrere alla messa in prova e per reati minori potrebbe addirittura evitare il processo e la detenzione».


Fattore Umano| Le stoviglie della speranza


Il bilancio della «Grande battitura della» promossa dai Radicali. Per mezz’ora i detenuti di quasi 90 carceri  hanno picchiato sulle sbarre delle celle. Anche perché il numero dei “ristretti” è di nuovo risalito a 67.000


«Suoneremo così le nostre campane», aveva annunciato Marco Pannella alla vigilia della «Grande battitura della speranza». E le campane sono risuonate forti, chiare e numerose. A Catania, Cosenza, Roma Rebibbia e Regina Coeli. E ancora, a Poggioreale, Lecce, Cagliari Buoncammino e Trento, e poi a San Vittore, Genova, Venezia, Bologna e in parecchie decine di altre carceri, ben 89 le adesioni giunte da tutte le regioni di Italia.


Già, perché migliaia di detenuti giovedì 30 agosto scorso hanno battuto con le stoviglie le sbarre delle proprie celle, nello stesso istante e per mezz’ora, trasformando così una forma di protesta tra le più tradizionali dell’immaginario carcerario in un messaggio pacifico e collettivo di speranza. Un messaggio che si è levato da quelle che il leader radicale ha definito le «nuove catacombe della democrazia e della giustizia».


La speranza dunque resiste e trova spazio perfino lì dove di spazio ce n’è pochissimo e, talvolta, basta soltanto per respirare. E dove persino lo stare in piedi è un tempo da contrattare con altri detenuti che, nel frattempo, devono stare in branda, perché lo spazio non basta per tutti.


La popolazione detenuta, nonostante le promesse e gli “interventi” normativi realizzati, è infatti tornata a sfiorare quota 67mila, mentre la capienza regolamentare (ma non necessariamente effettiva) non supera i 45mila posti. E sebbene il ministro ne abbia annunciati 11mila in più con la costruzione di nuovi padiglioni e istituti, non c’è traccia di assunzioni di nuovo personale. Insomma il piano di edilizia carceraria sembra destinato ad innalzare solo altre cattedrali nel deserto. Ammesso che poi si arrivi a costruirle davvero.


Ciò di cui c’è realmente bisogno, invece, sono misure rapide e incisive per uscire dallo stato di illegalità in cui versano le patrie galere e l’intera macchina della giustizia. Schiacciata dal peso di milioni di procedimenti arretrati.


Secondo i radicali è l’amnistia la sola strada da percorrere per un ritorno immediato alla legalità; e per restituire un po’ di credibilità al nostro Paese, ripetutamente condannato dalla Corte europea dei diritti umani proprio a causa del malfunzionamento della giustizia. Mentre a Strasburgo, sommersi da oltre mille ricorsi di singoli detenuti, i giudici si apprestano a emettere nei confronti dell’Italia una sentenza pilota per denunciarne le carenze strutturali in materia di carceri.


Anche per questo i reclusi d’Italia hanno risposto all’appello del leader radicale. Per invocare il rispetto della legge da parte di uno Stato che punisce loro per averla violata. E al tempo stesso fugge, come un latitante qualunque, dalle proprie responsabilità.


Fattore Umano | La finanza scommette sui social bond: profitti al 13%

Se il progetto fa scendere il numero dei recidivi


Una soluzione ignobile? Oppure una geniale quadratura del cerchio? L’opinione pubblica americana si è divisa sul patto tra Goldman Sachs ed il comune di New York, su impulso del sindaco, il finanziere Michael Bloomberg.


In estrema sintesi, la banca d’affari ha dato il via alla creazione dei «social impact bond», ovvero un’emissione da parte della banca di titoli in tutto e per tutto simili ai Bot o ai Btp. Stavolta, però, i fondi raccolti (9,6 milioni di dollari) non serviranno a finanziare il debito pubblico ma saranno messi a disposizione di un programma di rieducazione dei giovani ex detenuti rilasciati dalle carceri della Grande Mela. Si tratta di accompagnare il reinserimento dei ragazzi nella società, con l’obiettivo di ridurre il tasso di recidiva altissimo soprattutto nei quartier più a rischio. Ma attenzione: non si tratta di semplice beneficenza, comunque utile a ricostituire la reputazione assai acciaccata della banca d’affari. Ancora una volta, come sempre accade quando si ha a che fare con i Paperoni sulle due rive dell’Oceano, spunta il dio denaro.


Il comune, infatti, restituirà l’intera somma a Goldman Sachs nel caso che il tasso di recidiva dei detenuti scenda almeno del 10 per cento. In questo caso, è la spiegazione del sindaco, il miliardario Michael Bloomberg (che ha messo nell’iniziativa quattrini parcheggiati nel suo fondo personale per le opere di bene), la società farà comunque un ottimo affare. E se la recidiva scenderà ancor di più? Aumenteranno i guadagni di Goldman Sachs, ma con un tetto massimo di 2,1 milioni di dollari, pari al 13%. In caso di fallimento, comunque Goldman rischia di perdere 2,4 milioni di dollari, noccioline per una banca d’affari di quelle dimensioni.


L’idea, una miscela di filantropia e di speculazione, è piaciuta anche allo Stato del Massachussetts. «In questo modo – spiega George Overholser, gestore del fondo no profit Thid Sector – riusciremo a finanziare programmo di prevenzione, i primi che vengono tagliati in epoca di emergenza finanziaria. La formula vincente deve render conto di scelte conservative dal punto di vista fiscale ma progressiste sul piano dell’assistenza».


Che dire? La miscela fa rabbrividire: giocare con la vita delle persone utilizzando criteri di calcolo degni dei listini di Borsa dà un senso di razzismo e di mancato rispetto per la dignità personale.  Dietro le sbarre ci sono uomini, non numeri. Il rischio è che, per far tornare la contabilità, gli uomini dei mercati ricorreranno a scorciatoie di vaio genere. Peggio ancora, la moneta di Goldman Sachs minaccia di cacciare ai margini i volontari che da sempre s’impegnano sul fronte della riabilitazione.


Ma, in certi casi, più delle parole contano i fatti. I «social impact bond» portano comunque quattrini in un’area di bisogno destinata, con la crisi del welfare, ad un’endemica carestia di fondi. Ben vengano questi quattrini anche se non è il caso di accettarli a scatola chiusa. Ma se Mediobanca vuole imitare il cugino d’America, faccia pure.


Va detto che, del resto, il piano Goldman Sachs/New York non è il solo. Il taglio dei fondi pubblici (-16% nello Stato di New York rispetto al 2008) ha costretto un po’ ovunque gli amministratori ad accelerare sulla strada dei Social-impact bond.


Il primo esperimento si è tenuto nel Regno Unito, alla prigione di Peterborough, nel 2010. Con buoni risultati sia sociali che di reddito. Il tasso di recidiva dei 3mila ex carcerati è sceso del 7,5%, grazie ai programmi sociali attivati dal programma. Gli investitori, in questo caso la Rockefeller Foundation e la Fondazione inglese Esmée Fairbairn, hanno così potuto intascare una ricca cedola, pari al 13% del capitale investito. Ora il progetto si estenderà ad altri casi in Usa: oltre al programma quadriennale di New York, che avrà per palcoscenico la prigione maschile di Rikers Island e a Boston, test verranno effettuati a Los Angeles e nella contea di Cuyahoga, in Ohio.

Fattore Umano | «Il sovraffollamento tortura inaccettabile»


Su Tempi l’intervista di Ubaldo Casotto all’avvocato Carlo Federico Grosso: «Stipare 22mila persone in prigione oltre le 45mila di capienza regolamentare è una barbarie». Il legale, già vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura spiega perché ha firmato l’appello a Napolitano del professor Pugiotto



[…]


Professore, lei ha sottoscritto una lettera aperta al presidente della Repubblica che chiede il suo intervento con un messaggio alle Camere per la drammatica situazione delle carceri italiane dove sono stipati quasi 67mila reclusi…

Ventimila in più rispetto al dovuto. Cifra sulla quale il ministero ha operato una singolare distinzione tra “capienza regolamentare”, per cui parla di 22mila persone di troppo, e “capienza tollerabile”, che non sarebbe stata ancora raggiunta, ci sarebbe posto per altri 2mila detenuti. E francamente è questa distinzione a essere intollerabile. La capienza regolamentare è la capienza che un carcere può sopportare in maniera civile, 22mila persone oltre questa soglia costituiscono una stortura inaccettabile, perché stipare in carcere un numero così elevato di persone che non ci possono stare evidentemente è già di per sé una forma di quasi tortura.


Il 40% dei detenuti, oltre 26mila persone, è in carcere in attesa di una condanna definitiva, il 20% di chi è dietro le sbarre non ha ancora avuto neanche un processo di primo grado, si tratta di circa 13mila persone. Non pensa che si potrebbe intervenire almeno su questi?

Io credo che effettivamente un intervento su questa tipologia di detenuti potrebbe decongestionare in parte le carceri. Ma c’è un problema: è difficile in astratto e a priori trovare e imporre dei limiti alla custodia cautelare, perché questo istituto è un po’ legato alle vicende concrete della criminalità in Italia. Si possono fare dei calcoli di massima, però non è certo a mio avviso questa la via maestra per risolvere il problema. Anche perché ho l’impressione che cambiare le regole della custodia cautelare sia difficile è complesso e non credo che il nostro Parlamento troverebbe agevolmente un punto di accordo politico su questo profilo.


Forse è un problema di prassi nell’applicazione concreta delle regole esistenti. Si potrebbe partire da qui?

Sì, questo è possibile. Ma io credo che sia molto difficile, da un lato, verificare nella sostanza i contenuti di questa prassi e, in secondo luogo, più difficile ancora cambiare la prassi se non si modifica la disciplina. Sostanzialmente ogni vicenda giudiziaria è affidata a un pubblico ministero e a un gip: il pm chiede la custodia cautelare e il gip la concede o la rifiuta. Dopo di che ogni pm è assolutamente indipendente e a maggior ragione anche ogni gip, che non può in nessun modo essere condizionato dall’esterno da un qualche livello superiore: modificare la prassi implica cambiare la mentalità dei magistrati, ma questo è un processo lungo, ci vogliono anni, e non è un modo per risolvere “oggi” il problema drammatico delle carceri.


Non crede che la custodia cautelare sia troppe volte usata per fini non propri?

Per ottenere confessioni o dichiarazioni utili all’accusa? Non sono in grado di rispondere in modo assoluto. In base alla mia esperienza posso dire che qualche volta l’impressione che l’istituto fosse usato in maniera assolutamente disinvolta c’era, altre volte era usato in maniera assolutamente corretta, anche visto dalla parte di noi avvocati. È difficile riuscire a quantificare. Ripeto, altro è modificare le regole a cui i magistrati devono attenersi, altro è sperare in improbabili cambiamenti della prassi. Non escludo che questo possa avvenire, ma non in tempi rapidi, mentre la situazione attuale esigerebbe un intervento in grado di liberare un numero di posti – carcere molto elevato con un provvedimento di rapidissima applicazione. Ecco perché io credo che l’amnistia e l’indulto siano molto probabilmente l’unico modo concreto e praticabile in questo momento per risolvere, almeno temporaneamente, il problema. Dico temporaneamente anche perché, se si utilizzasse questi due strumenti, è chiaro che dovrebbero essere subito accompagnati da riforme strutturali, in modo da evitare che l’affollamento si ripeta, perché storicamente è sempre successo così: dopo due anni si tornava ai numeri precedenti. Amnistia e indulto non sono la soluzione, sono un provvedimento tampone per uscire dalla situazione drammatica attuale. Poi bisogna pensare in grande, fare una riforma di struttura, altrimenti non si risolvono i problemi.


Per i difensori dell’amnistia non è vero che le carceri si riaffollano perché chi è uscito torna subito a delinquere…

In questo hanno ragione, chi riempie le carceri molte volte non è recidivo, non ha cioè goduto dei provvedimenti di clemenza. Ma questo rende ancora più evidente la necessità di intervenire con riforme di struttura. Bisogna che il Parlamento si decida ad affrontare il problema con una serie di interventi coordinati tra loro in modo da incidere sui diversi aspetti che possono influire sulla popolazione carceraria: ulteriori depenalizzazioni, ampliamento delle forme di esecuzione fuori dal carcere… Non posso certo essere qui esaustivo, ma da anni noi penalisti stiamo ragionando su questi temi e abbiamo un quadro articolato dei possibili modi di intervenire.


Nell’appello al presidente della Repubblica si denuncia anche la “non ragionevole” durata dei processi. Pensa che anche qui si possa intervenire d’urgenza?

La durata irragionevole dei processi è un dato di fatto assolutamente inequivocabile del nostro paese. I livelli di intervento possibile sono numerosi. Innanzitutto bisogna agire su norme di diritto penale sostanziale, cioè riducendo il numero dei reati, liberando così la magistratura penale ordinaria di una parte considerevole di processi per fatti minimali che fanno perdere tempo, e, in secondo luogo, attraverso una più razionale organizzazione del personale giudiziario. Io ho l’impressione che l’organizzazione dei processi non sia sempre volta all’efficienza, molte volte è condizionata dalle cattive abitudini di qualche giudice e degli avvocati. In terzo luogo bisogna intervenire su una serie di dettagli che consentono agli avvocati di utilizzare espedienti formali per ottenere rinvii. Noi facciamo, ovviamente, il nostro mestiere, ma questo è un sistema che deve essere radicalmente cambiato.


Lei non crede che certe lungaggini, non degli avvocati, ma dei magistrati, siano anch’esse da deplorare, soprattutto quando ci sia di mezzo la libertà delle persone? Due giorni per decidere di respingere una richiesta di revoca degli arresti cautelari e quaranta per depositare le motivazioni, facendo così slittare il ricorso, non le sembrano due dati sproporzionati tra loro?

Dipende dalle complessità della motivazione. Certo, si può anche qui cercare di sveltire, svincolando il giudice come propongono alcuni da motivazioni troppo certosine e complete. Io sono contrario, perché la motivazione è anche garanzia per l’imputato; il magistrato ha l’onere, dovendo motivare, di mettere bene in fila e ragionare sugli elementi a carico, se non dovesse farlo il rischio di una giustizia sommaria aumenterebbe.


In Italia, tra giustizia penale e civile sono pendenti circa 11 milioni di processi, uno ogni cinque abitanti. Anche attuando riforme strutturali, come è possibile smaltire questo pregresso?

Se si fanno amnistia e indulto il problema è automaticamente risolto, certi processi possono essere decisi in pochi minuti. È un dato storico per la giustizia italiana: prima della riforma che ha introdotto maggioranze qualificate per questi provvedimenti, nel nostro paese c’era un’abitudine assolutamente scorretta dal punto di vista di una politica criminale che però risolveva questi problemi. Tra amnistie e indulti praticamente ogni due o tre anni nei fatti si depenalizzava tutta la giustizia minore. I reati le cui pene, fatte salve le eccezioni sempre previste, rientravano nei tre anni di reclusione massima non erano più sottoposti a processo, la giustizia penale minore era di fatto non applicata e i tribunali avevano molto meno da lavorare.


Lei pensa che Giorgio Napolitano accoglierà l’appello e si rivolgerà alle Camere con un messaggio? Vede, conseguentemente, un clima in cui amnistia, indulto e le conseguenti riforme possano prendere avvio?

Che cosa farà il capo dello Stato non lo so. So però che in questi ultimi anni ha sempre dimostrato grandissima attenzione al problema delle carceri, intervenendo più di una volta. È possibile, dunque, che recepisca la nostra istanza, è abbastanza probabile che comunque una risposta ci sia. Detto questo, francamente, non credo che le forze politiche, estremamente divise sul tema dell’amnistia e dell’indulto, possano facilmente trovare un accordo per una maggioranza qualificata soprattutto adesso che siamo vicini alle elezioni. La gran parte dell’opinione pubblica chiede pene severe e posizioni inflessibili e non sarebbe favorevole a provvedimenti di clemenza temendo una ricaduta sull’ordine pubblico e sulla criminalità diffusa; e i politici sono molto sensibili all’opinione pubblica. Penso che il presidente prenderà iniziativa, ma è difficile che il Parlamento, pur sollecitato, reagisca in tempi rapidi, sicuramente non sarà rapido nell’affrontare il tema della riforma strutturale a meno di un anno dalle elezioni; per quella bisognerà attendere la nuova legislatura.


Media e politici hanno una responsabilità grave, lei non ritiene che l’opinione pubblica in materia sia male informata?

Certo che è male informata, e di fronte a queste decisioni ha la reazione istintiva di chi non conosce tutti gli aspetti della problematica. Ma un processo di informazione e di educazione è lento. C’è una cosa estremamente importante che bisognerebbe far capire a tutti: il carcere di per sé non risolve i problemi, nemmeno quello della difesa sociale delle persone, sarebbe quindi più efficace utilizzare misure diverse dal carcere per contrastare determinati aspetti della criminalità.


Fattore Umano | «Una questione di prepotente urgenza»

«Signor Presidente della Repubblica, se non ora, quando? Se non così, come?». Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di Andrea Pugiotto, docente di Diritto Costituzionale Università di Ferrara, sull’emergenza giustizia e carceri


Tra le prime adesioni: docenti universitari e 13 Garanti dei detenuti, professori universitari, i Garanti dei detenuti, il direttore del settimanale Tempi, Leo Beneduci (Osapp), Ornella Favero (Ristretti Orizzonti), Patrizio Gonnella (Associazione Antigone), Eugenio Sarno (Uilpa penitenziari). Ecco il testo della lettera.


Signor Presidente della Repubblica,


ci rivolgiamo a Lei quale primo garante della legalità costituzionale del nostro ordinamento, con la massima fiducia in un Suo immediato ricorso al potere di messaggio alle Camere, affinché il Parlamento eserciti finalmente le proprie prerogative per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana che al suo più drammatico punto di ricaduta, le carceri.

 

1. «Crisi», nella sua etimologia, è sinonimo di cambiamento. Indica un momento di passaggio tra una maniera di essere ad altra differente. É il presupposto obbligato per una rinascita. «Crisi» è discernimento tra un prima e un dopo. É stato Lei, Signor Presidente, a denunciare lo stato di crisi della giustizia italiana, parlando di «punto critico insostenibile cui è giunta la questione, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata [...] e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere, private della libertà per fini o precetti di sicurezza e di giustizia». Più di recente, è stata la seconda carica dello Stato, il Presidente del Senato, a fare eco alla Sua denuncia scrivendo pubblicamente – a nome della Istituzione che rappresenta – di una «tragedia senza fine delle carceri italiane» che «rappresentano anche un atto di accusa, inquietante e insopprimibile, per tutta la classe dirigente e per tutte le istituzioni democratiche» accomunate nella categoria di «traditori di un precetto sacro e inviolabile» qual è l’art. 27, 3° comma, della Costituzione italiana. Sia Lei che il Presidente del Senato avete espresso tali denunce nell’esercizio delle Vostre alte funzioni istituzionali, rivolgendoVi (anche) all’opinione pubblica, moderna configurazione del popolo sovrano. Altrettanto hanno fatto, con analoghe prese di posizione pubbliche, organi apicali dell’ordinamento della giustizia italiana quali il Presidente della Corte costituzionale, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, il Presidente della Corte dei Conti. Siamo persuasi e autenticamente preoccupati per quanto descritto dalle Vostre parole. Ecco perché, in spirito di leale collaborazione – come la Costituzione impone nelle relazioni tra tutte le componenti dello Stato – sentiamo il dovere di chiedere a Lei di investire del problema il Parlamento, formalmente e con la massima urgenza, chiamandolo così ad una pubblica assunzione di responsabilità.

 

2. Trasformare la crisi della giustizia e delle carceri in una opportunità di cambiamento strutturale è, per il Parlamento, un vero e proprio obbligo costituzionale. Lo è, innanzitutto, sotto il profilo della cessione di sovranità che l’Italia ha volontariamente compiuto aderendo al Consiglio d’Europa ed al suo sistema di giustizia sovranazionale. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo vede l’Italia reiteratamente condannata per le sistematiche violazioni dell’art. 6 CEDU, sotto il profilo della durata non ragionevole dei suoi processi. Analogamente, sono già più d’una le condanne dell’Italia per l’accertata violazione dell’art. 3 CEDU, sotto il profilo delle condizioni inumane e degradanti cui sono stati costretti in carcere alcuni detenuti. Tutto questo già si traduce in una attuale violazione della Costituzione italiana. Il suo riformato art. 117, 1° comma, impone ora al legislatore nazionale il rispetto «dei vincoli derivanti [...] dagli obblighi internazionali» anche pattizi. E la giurisprudenza della Corte costituzionale assume la normativa CEDU nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo a parametro di giudizio nel sindacato di costituzionalità della legislazione nazionale. Le condanne a Strasburgo, specie quando seriali, sono dunque il segnale di una Costituzione violata. C’è di più. La durata eccessiva dei procedimenti giudiziari in Italia è considerato, in ambito CEDU, un problema oramai strutturale di persistente gravità cui le autorità italiane – da almeno venti anni – sono sollecitate a porre globalmente rimedio: la prima risoluzione in tema, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, risale al 1992; l’ultima è del 2011. Ed è proprio In considerazione dell’assenza di miglioramenti tangibili nell’amministrazione della giustizia italiana – e del ripetersi delle condanne dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo – che il Comitato dei Ministri ha ritenuto necessario istituire un meccanismo specifico di monitoraggio. Lo stesso orizzonte si profila, in ambito CEDU, per le condizioni delle carceri italiane. Con riferimento alle decine e decine di ricorsi pendenti ed in attesa di trattazione, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha richiesto al Governo italiano di fornire tutti i dati concernenti le condizioni di detenzione dei ricorrenti, il numero di reclusi in ogni carcere, le ore d’aria di cui possono fruire, la capienza massima degli istituti penitenziari. Il rischio è che anche in questo settore – come già accaduto sul versante dei tempi biblici della giustizia nazionale – venga accertata una sistematica violazione convenzionale da parte dell’Italia, riconducibile a uno specifico difetto “strutturale” del suo sistema normativo interno. Non basta. In ragione dell’eccesso di ricorsi pendenti a Strasburgo contro l’Italia per violazione del diritto ad un equo processo in tempi ragionevoli, è lo stesso sistema giurisdizionale CEDU a rischiare la paralisi. Lo ha denunciato di recente con parole nette il Segretario Generale del Consiglio d’Europa: «L’Italia è uno dei maggiori responsabili dell’arretrato [della Corte EDU] a causa della lentezza eccessiva dei procedimenti giudiziari nel Paese. Il danno collaterale degli arretrati è quello di bloccare il normale funzionamento della Corte EDU, che non è mai stata intesa come corte di ultima istanza per sistemi giudiziari incapaci di proteggere internamente i diritti umani» [Comunicazione all’Assemblea Parlamentare di Strasburgo, 23 gennaio 2012]. Analoga denuncia era già stata formulata ufficialmente dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa («cette situation constitue une menace sérieuse pour l’efficacité du système de la Convention et de la Cour européenne») con l’ingiunzione rivolta all’Italia di porvi rimedio [Decisione della Delegazione del Comitato dei Ministri, 2 dicembre 2011]. In questo modo, Signor Presidente della Repubblica, la violazione della legalità costituzionale si rivela malattia non solo recidivante ma insidiosamente contagiosa. Una peste italiana.

Fattore Umano | Bernardini: «Basta tortura»

L’appello della deputata radicale al Guardasigilli alla vigilia del sit-in di domani al Pantheon «in ricordo vittime giustizia italiana»


L’appuntamento è per domani, 26 giugno, dalle 19 alle 22.30 in piazza della Rotonda (Pantheon) a Roma. Qui i radicali ricorderanno con un sit-in la tragedia dei «caduti suicidi di questo 2012 negli istituti penitenziari italiani».


A 25 anni dalla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu contro la tortura non è ancora stato previsto  nel nostro ordinamento il reato di tortura. Intanto, come sottolinea l’onorevole Rita Bernardini, il ministero della Giustizia ha nei fatti diviso i detenuti in due categorie: da una parte, l’esigua minoranza costituita da quelli che «possono vivere la detenzione o il lavoro negli istituti secondo quanto stabilito dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario»; dall’altra la stragrande maggioranza, costituita da migliaia di detenuti reclusi negli istituti di pena «che continuano ad essere sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, fuori da ogni legalità».


Fattore Umano | In scena “Destini Incrociati”


Tra Firenze, Prato e Lastra a Signa, prosegue fino al 23 giugno la prima rassegna nazionale italiana di teatro in carcere in Italia


Il film dei fratelli Taviani Cesare deve morire piuttosto che la partecipazione di un attore della Compagnia del carcere di Volterra a Reality, la pellicola di Matteo Garrone presentata all’ultimo Festival di Cannes, hanno portato alla ribalta l’importanza degli spazi teatrali nei penitenziari italiani. Anche a partire da un dato che spicca su tutti: chi partecipa ad attività teatrali, o culturali in senso lato, durante la pena ha un tasso di recidiva, una volta uscito dal carcere, di gran lunga inferiore a chi non partecipa. E basterebbe già questo a motivare una maggiore sensibilità dell’Amministrazione penitenziaria.


Purtroppo, però, la regione Toscana è l’unica in Italia a sostenere un progetto di rete sulle attività di spettacolo all’interno delle carceri istituti con circa 300 mila euro annui per le 15 strutture detentive e i 14 soggetti qualificati al recupero e reinserimento sociale dei detenuti.


Intanto, in questi giorni, e fino al 23 giugno, si tiene tra Firenze, Prato e Lastra a Signa la prima rassegna nazionale di Teatro in carcere dal titolo Destini Incrociati una iniziativa realizzata dal Coordinamento Nazionale teatro in carcere e dal Teatro Popolare d’Arte col sostegno della stessa regione Toscana.


Gli spettacoli, frutto dei laboratori realizzati con i detenuti, andranno in scena negli istituti di Sollicciano e La Dogaia di Prato, mentre la sezione esterna, composta oltre che da rappresentazioni anche da conferenze, mostre e convegni, sarà ospitata al Teatro delle Arti di Lastra a Signa e Montelupo.


Dunque, agli spettatori verranno proposti da Shakespeare a Becket, dalla commedia alla tragedia, dal cabaret al teatro dell’assurdo, con registi come Gianfranco Pedullà, mentre la realtà del carcere vista attraverso la lente del teatro sarà il tema affrontato da Elisa Taddei, Massimo Altomare, Olga Melnik e Alessio Traversi. Maniphesta Teatro di Napoli, invece, porterà in scena Becket e Godot, mentre il Teatro popolare d’arte di Prato propone Santa Giovanna dei Macelli di Bertold Brecht e il Teatro Metropopolare di Prato si esibisce con Hamlet’s Dream.


Destini Incrociati è la prima iniziativa pubblica del Coordinamento Nazionale teatro in carcere, nato a Urbania nel gennaio del 2011, allo scopo di creare occasioni di confronto e di qualificazione del movimento teatrale sorto appunto all’interno delle carceri.



Fattore Umano | Liberare i bambini dal carcere

Una petizione di Eurochips in collaborazione con Bambini senza sbarre contro il dramma dei piccoli tenuti in galera


«Not my Crime, Still my Sentence». Non un mio crimine, ma una mia condanna. Eurochips (European network for Children of Imprisoned Parents) ha lanciato una campagna europea di informazione sul dramma dei bambini in carcere in collaborazione con il partner italiano Bambinisenzasbarre


I dati parlano da soli: un bambino su 100 ha un genitore in carcere in Europa.  Minori costretti a vivere la carcerazione insieme al genitore detenuto e che sono anche altamente esposti al «rischio di discriminazione, esclusione sociale, povertà e all’interruzione dei legami familiari». Un “danno collaterale” che non rispetta il legame familiare che è riconosciuto dalla Convenzione dell’Onu dei diritti del bambino e dalla Carta europea dei diritti fondamentali e da altri trattati internazionali.


La campagna di Eurochips che promuove la raccolta di firme indica ai membri del Parlamento europeo alcune raccomandazioni fondamentali per «rendere questi bambini “visibili” alla comunità europea e non vengano lasciati indietro»:

  • Il miglioramento delle condizioni di visita in carcere dei bambini, con l’aumento delle ore di incontro per assicurare un regolare e diretto contatto con il genitore detenuto, e incrementare la consapevolezza e la formazione degli operatori penitenziari;

L’organizzazione di gruppi di monitoraggio a livello nazionale per avere maggiori informazioni su questo gruppo di bambini e mantenere alta la qualità delle visite in carcere.

Fattore Umano | Di Giacomo (Sappe): «Pronto allo sciopero della sete»


Domani conferenza stampa, presenti anche Pannella, Bernardini e Testa. Intanto nel carcere di Montacuto-Ancona ennesimo suicidio di un detenuto


Un suicidio, un altro, l’ennesimo, in un carcere italiano. Questa volta si tratta di un detenuto italiano di 54 anni, recluso a Montacuto-Ancona per l’omicidio della moglie. L’uomo si è ucciso impiccandosi all’elemento di un termosifone. Per ora non si sa altro.


Curiosamente, si fa per dire, si tratta dello stesso carcere che ha spinto Aldo Di Giacomo, segretario regionale Marche del Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria), a iniziare uno sciopero della fame per denunciare le condizioni di degrado dell’istituto di Montacuto-Ancona e, più in generale, lo stato di sovraffollamento dei penitenziari italiani. Una protesta, giunta ormai al 22esimo giorno, e che – da lunedì – diventerà anche uno sciopero della sete, se non verrà convocato a breve dal ministro e dall’Amministrazione.


«Nelle carceri italiane – dice infatti Di Giacomo – si continua a morire come se fosse una cosa normale, ma non è normale». E aggiunge: «Quest’ultimo episodio a Montacuto, dimostra come veramente il mondo carcerario sia un mondo dimenticato. Perché Ancona è lo specchio delle carceri italiane».


Per questo, domani, martedì 12 giugno, alle ore 13.30 a Roma presso la Sala stampa della Camera dei Deputati (via della Missione 4), Marco Pannella, che proprio venerdì scorso ha ripreso l’iniziativa nonviolenta di digiuno per l’Amnistia, la giustizia e libertà, presenzierà la conferenza stampa di Aldo Di Giacomo, che illustrerà le ragioni del suo sciopero. Alla conferenza inteverranno anche l’on. radicale Rita Bernardini, che proprio sulle condizioni della struttura di Montacuto ha presentato un’interrogazione parlamentare alla quale il governo risponderà giovedì prossimo, e Irene Testa, segretaria dell’associazione Il detenuto ignoto.


Fattore Umano | Nessun detenuto resta VIP


Il nuovo libro di Melania Rizzoli con le testimonianze dei reclusi famosi. «Per attirare quante più persone a interessarsi dei problemi carcerari»



«Non è facile scrivere un libro sulle carceri e trovare un editore». È una delle prime considerazioni che si possono ascoltare da Melania Rizzoli, medico, parlamentare del Pdl, moglie di Angelo Rizzoli, autrice di Detenuti (Sperling & Kupfer), un viaggio di “incontri e parole” tra gli istituti di pena italiani. Melania Rizzoli però questo libro è riuscita a scriverlo, e a pubblicarlo, girando in lungo e in largo le carceri la Penisola per raccogliere le storie e alle testimonianze dirette di detenuti (o ex detenuti) “eccellenti”, persone quindi dai nomi noti al grande pubblico.


Storie di galera – si può dire – perché Melania Rizzoli non si pone la domanda se si tratti di persone innocenti o colpevoli. Questo perché, per scelta, il risvolto prettamente giudiziario non fa parte del libro. L’obiettivo non è quello di ribaltare verdetti emessi in aule di Tribunali. Il suo scopo è diverso: è di richiamarci comunque «all’umanità dei detenuti», innocenti o colpevoli che siano o che si dichiarino tali, descrivendo il loro vissuto di persone ristrette, e di scandagliare quel misto di «rabbia, ostilità e disperazione che nelle carceri italiane è sempre nell’aria». Una scelta, quella di intervistare solo VIP, per attirare – come ha dichiarato la stessa Rizzoli: «quante più persone a interessarsi dei problemi carcerari».






Un libro di emozioni, dunque, anche difficili da digerire. Come quando si legge del boss dei boss, Bernardo Provenzano, capo di Cosa Nostra dopo l’arresto di Totò Riina, mandante di centinaia di assassini, oggi vecchio e malato di un tumore in fase avanzata, tuttora in regime di 41 bis, che dice a Melania Rizzoli che la cosa che più gli manca è l’«aria». È lì che viene subito voglia di schierarsi con chi il male dei boss alla Provenzano l’ha subito, e a cui l’aria è stata tolta per sempre, magari con una pallottola o una bomba. Melania Rizzoli lo sa ed è consapevole dello sguardo delle vittime, rispetta quello sguardo, ma aggiunge: «ho cercato di descrivere persone». Ed è questo l’aspetto migliore del libro, quello di evitare di schierarsi sul piano della giustizia, facendoci capire che un conto sono le sentenze, altra cosa è il mondo sommerso nelle carceri, dove la vita reale troppo spesso scorre al di fuori di quella che chiamiamo umanità o, con falsa coscienza, «pena emendativa».


Sfilano così sotto gli occhi dei lettori alcuni volti noti della politica, ex leader finiti nella polvere, come Ottaviano del Turco o Salvatore “Toto” Cuffaro, oppure i nomi di imprenditori di successo, come Francesco Bellavista Caltagirone, rinchiuso lo scorso marzo con l’accusa di «truffa allo Stato», che si chiede perché per lui, ultrasettantenne, non possano valere i paletti previsti dalla legge sulla «custodia cautelare». E ancora, personaggi dello spettacolo e dello star system, da Franco Califano che spiega come la sua salvezza in galera sia stata quella di crescere fin da bambino in un quartiere coatto, al pianto irrefrenabile di Lele Mora, agli autori di delitti di cronaca nera come Michele e Sabrina Misseri, agli ex terroristi, dalla “nera” Francesca Mambro al “rosso” Sergio d’Elia, fino al controverso caso di Adriano Sofri.


Scrive nella prefazione Luigi Manconi, «La verità del libro è che attraverso le sofferenze di uomini illustri o ex tali, si arriva a conoscere la realtà carceraria». Una realtà dove, accanto ai nomi eccellenti, grava un’umanità di quasi 67mila persone, a fronte di 45mila posti disponibili.


Numeri che conviene ripassare: dei 67mila ristretti, non meno del 30% sono tossicomani (oltre 20mila), il 34% sono stranieri (circa 25mila), il 16% appartiene alla criminalità grande o media (poco più di 10mila), il resto sono “scarti sociali”, gente senza dimora, infermi di mente, alcolisti, persone ai margini del sistema, che entrano ed escono dagli istituti di pena anche per la diminuita capacità del Welfare di fare fronte al disagio sociale.


C’è poi un altro dato. Circa il 40%, pari a 26-27mila detenuti, sono detenuti in attesa di giudizio. Ma soprattutto, circa la metà di costoro viene poi assolta. Il conto è presto fatto: le patrie galere, statisticamente parlando, sono in ogni momento affollate da un esercito di 13mila innocenti.

Melania Rizzoli accenna a questi dati, ma si sofferma soprattutto sulle persone. Ne escono quadri dolenti, sofferenti, di persone attaccate ai pochi spazi della vita carceraria, agli affetti famigliari, stordite dall’attesa dei tempi giudiziari. «I detenuti che hanno commesso errori – scrive perciò Melania Rizzoli – convivono con una pena profonda e costante, un tarlo che li rode, una malattia che non li uccide, ma li fa ammalare dentro». E ancora: «ho tentato di denunciare come spesso venga calpestata la dignità dell’uomo e come l’umiliazione della detenzione annulli anche le personalità più forti».


Ne emergono continue piccole confessioni: da Salvatore Cuffaro che dice «finalmente sono ultimo, non più primo», a Bernardo Provenzano che biascica in stretto dialetto «il male è dentro il mondo», a Lele Mora che osserva sconsolato come i tantissimi amici siano «tutti spariti». Alla fine ci si accorge che non esiste il “Carcere dei Famosi”, ma solo il carcere e basta. Perché il carcere, anche per i Famosi, trascolora la vita, fa da cesura, tra un prima e un poi che non s’incontrano.


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