Fattore Umano | Buon anno a Rita (e a tutti i 68mila detenuti accatastati)


Pubblichiamo un articolo scritto dall’On. Bernardini per il settimanale Gli altri, dedicato alle buone ragioni per un’amnistia. Un atto di clemenza, ma non solo. Soprattutto un atto di buonsenso giudiziario, in un Paese dove la giustizia non funziona. Dove lo stato non “detiene” ma “sequestra”, troppo spesso in modo illegale


È la sicurezza, bellezza! È in nome della sicurezza che in Italia c’è una parola bandita, nonostante sia espressamente prevista dall’articolo 79 della Costituzione che recita «l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera».


Di amnistia non si può parlare in TV e Marco Pannella, che la propone dal 1977, viene fatto passare per un pazzo-maniaco quando (raramente) un TG (Rai o Mediaset, non fa differenza) gli concede quei 20 secondi in cui letteralmente strozzato urla che c’è uno Stato criminale che non “detiene” ma “sequestra” nelle carceri 70.000 persone e che si comporta come un delinquente professionale, lasciando morire al ritmo di 200.000 all’anno procedimenti che si accumulano a milioni: 5.200.000 quelli penali e 5.400.000 quelli civili. In 34 anni (nel 1977 i procedimenti penali pendenti erano “solo” due milioni) sul tema dell’Amnistia mai un confronto in TV, un faccia a faccia, un dibattito.


Rarissimamente salta fuori un “armadietto della vergogna“, come ha scritto Il Fatto del 25 novembre scorso, per scoprire che a Bologna ci sono 8.500 fascicoli dimenticati e che la Procura ha chiesto l’archiviazione per prescrizione di 3.300 fascicoli per reati tra i quali furti, truffe, ricettazioni e contravvenzioni in tema ambientale. È questa la “sicurezza” che offre ai cittadini lo Stato italiano? Certo, rende di più elettoralmente tacere dell’amnistia mascherata delle prescrizioni, piuttosto che assumersi la responsabilità di approvare un’amnistia che riduca i procedimenti penali a un numero gestibile che, peraltro, consentirebbe di recuperare risorse umane e finanziarie di cui tanto la giustizia penale, quanto quella civile hanno un bisogno vitale.


Mai è stata fatta un’inchiesta per sapere, Procura per Procura, quali reati riguardino ogni anno i 183.000 processi che muoiono nel silenzio più totale, ma una casta finora invincibile è pronta a immolarsi per salvaguardare un principio impraticabile che esiste solo in Italia, quello dell’obbligatorietà dell’azione penale: tutti i reati devono essere forzatamente perseguiti per una questione – dicono – di uguaglianza dei cittadini. Poi, certo, le scrivanie traboccano di fascicoli e gli “armadietti” custodiscono quelli destinati a morire.


Diventa così un gioco da bambini scegliere senza nessuna regola i processi da celebrare e quelli da ignorare e chi fa queste scelte di politica giudiziaria è persona che, per quanto professionalmente qualificata, è un dipendente dello Stato che ha vinto un concorso, che fa una carriera pressoché automatica e che, soprattutto, non è stato eletto da nessuno e non ha l’onere di rendicontare sulle sue scelte.


Fatto sta che è proprio la sicurezza percepita dai cittadini (non quella reale che dimostra da anni che i reati sono in calo e che la recidiva è molto più alta fra chi sconta tutta la pena in carcere rispetto a chi accede alle misure alternative) a spingere le forze politiche a ignorare qualsiasi principio di legalità. A niente servono le continue condanne che l’Italia subisce in sede europea. È almeno dal 1980 che il Consiglio d’Europa denuncia il fatto che «i ritardi della giustizia in Italia sono causa di numerose violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo» e che tali ritardi «costituiscono un pericolo effettivo per il rispetto dello stato di diritto in Italia». Del tutto ignorato è stato il rapporto sulla giustizia in Italia, del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Alvaro Gil-Robles, che sei anni fa stimava che «circa il 30 per cento della popolazione italiana era in attesa di una decisione giudiziaria». Per non parlare delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che costantemente puniscono il nostro Paese per trattamenti disumani e degradanti nelle carceri.


Ciò che preoccupa è che a dimostrare disprezzo per lo stato di diritto non sono solo i partiti giustizialisti, che per tali vogliono presentarsi agli elettori. Proprio recentemente abbiamo ri-ascoltato dichiarazioni in ambito PD che liquidavano la proposta di amnistia con queste parole: «No a indulti o amnistie. È come il condono: non si può e non si deve svuotare il principio di legalità» (Donatella Ferranti) o che, nella discussione parlamentare sull’acquisizione delle intercettazioni telefoniche dell’On. Romano, si auguravano che il deputato in questione «possa dimostrare la sua innocenza» (Marilena Samperi).


Dove sia la legalità nelle attuali condizioni di detenzione o nei milioni di procedimenti arretrati, l’ex PM On. Ferranti non lo spiega; mentre l’On. Samperi (Vice procuratore onorario) sembra disconoscere l’elementare principio per il quale non è l’imputato a dover dimostrare di essere innocente, ma la pubblica accusa ad avere l’onere della prova di colpevolezza. Il nodo che va sciolto all’interno del PD è la legittimità di questa linea politica che si impone su tutte le altre voci che pur ci sono, a partire dal responsabile giustizia, Andrea Orlando; voci che però non riescono ad affermarsi. Lo stesso Massimo D’Alema oggi tace. Eppure nel 2005, quando partecipò alla Marcia di Natale organizzata dai radicali (quando i detenuti erano diecimila in meno di oggi!) affermò che «chi dice di no all’amnistia, se ne assumerà la responsabilità» e che «si parla da troppo tempo di un gesto di clemenza; tanti dibattiti ma non si è fatto niente mentre bisogna far presto».


Sì, «fare presto», perché «occorre esigere che il nostro Stato interrompa la flagranza di reato contro i Diritti Umani e contro la Costituzione italiana», così urla – ancora in un grido inascoltato – Marco Pannella.


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