Fattore Umano | Decesso a Regina Coeli, al Dozza in cella un non vedente


Ancora un morto nel carcere romano, il terzo in meno di un mese, mentre nell’istituto di Bologna si resta in galera pure da ciechi. Con l’assistenza di un altro detenuto



Il carcere romano di Regina Coeli


Un altro decesso a Regina Coeli, il terzo in meno di un mese, avvenuto nella notte di venerdì e sabato 25 febbraio. A morire nel centro clinico del carcere romano un detenuto di 65 anni, Angelo Savarese, affetto da diverse patologie cliniche, diabete compreso.  Una morte «per cause naturali». «L’uomo – si legge nel comunicato a firma del garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni – era ricoverato nel Centro diagnostico terapeutico dove stava scontando una pena di diversi anni per cumulo di condanne». E a nulla sono serviti i soccorsi «pur tempestivi», e la presenza di medici: Savarese si è sentito male ed è deceduto poco dopo.




Aggiunge però Marroni: «Il centro clinico di Regina Coeli è una struttura di riferimento nazionale per la salute in carcere ma, come il resto del penitenziario, soffre di molti mali: rotture di impianti e infiltrazioni, precarie condizioni igieniche, sovraffollamento e promiscuità, carenza di macchinari e di risorse economiche». Del resto, ad essere ricoverati non sono solo gli ammalati interni del carcere, ma anche detenuti provenienti da tutta Italia con gravi patologie. Come risultato, c’è un detenuto che da 14 mesi aspetta un intervento chirurgico, mentre un altro, trasferito dalla regione Sicilia, aspetta da tre mesi un fisioterapista.


Insomma: «È l’intero complesso di Regina Coeli – aggiunge Marroni – a non essere più in grado di garantire standard accettabili di vivibilità per nessuno, dai detenuti agli agenti. Regina Coeli ha oltre 300 anni e li dimostra tutti, e non possono bastare gli interventi di ristrutturazione, pur radicali. Solo qualche settimana fa avevamo proposto di chiudere il carcere ai nuovi ingressi per alleviare il sovraffollamento. Ora credo che sia giunto il momento di pensare alla chiusura di Regina Coeli».



Casa circondariale di Bologna Dozza


Da Roma a Bologna, un viaggio-incubo che si ripete: «Tre persone in una cella in cui dovrebbe starcene una sola, costrette a stare sdraiate sul loro letto per la mancanza di spazio di movimento; quattro docce (fredde) per 75 detenuti; derrate alimentari stipate nei bagni e tre esperti-psicologi (pagati 17 euro l’ora) che devono stare dietro a 480 detenuti». È la denuncia sul carcere della Dozza, dopo la visita di alcuni avvocati penalisti, guidati dal Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, Valerio Spigarelli. I ristretti “stipati” sono 1.083, contro i 450 previsti dalla capienza regolamentare.





Ma non c’è solo il sovraffollamento cronico, ci sono casi umani oltre il limite della vergogna. Ad esempio, c’è un detenuto non vedente di 65 anni: «Lo assiste un detenuto-piantone – spiegano i penalisti – pagato tre ore al giorno ma in realtà fa le altre 21 ore di volontariato per non lasciarlo solo». Per non dire di un altro recluso, reduce da un trapianto di fegato, che al momento resta in infermeria. «Avrebbe dovuto stare isolato per evitare contagi, ma la direttrice ha dovuto scegliere il “male minore” cioè quello di tenerlo in infermeria», dicono i penalisti.


Commenta Spigarelli: «Siamo di fronte a una situazione di assoluta inciviltà, i detenuti sono costretti a vivere in condizioni intollerabili, in particolare quelli in attesa di giudizio». «Il problema – aggiunge – è soprattutto una legislazione che non fa altro che appesantire il sistema delle pene e prevedere il carcere per sempre più reati, mentre le misure alternative, come la messa in prova, sono pressoché sparite. E la cosiddetta legge “svuota carceri” non ha svuotato niente».


Che fare? «Prima di tutto – insiste il Presidente UCPI – provvedimenti incisivi in tema di custodia cautelare. Il carcere deve essere l’estrema ratio e non può diventare un ricettacolo delle persone ai margini della società. La custodia cautelare va limitata, facendo tornare in vigore una serie di misure alternative ormai scomparse in tanti Tribunali di sorveglianza, Bologna compresa, come l’affidamento in prova, i lavori socialmente utili che a volte possono essere molto più educativi e deterrenti che restare 20 ore al giorno chiusi in una cella o la semilibertà».


Nel frattempo, quando il numero dei detenuti alla Dozza supera il numero di 1.100, si aggiungono per terra dei materassi. Alcune celle hanno la doccia interna (tre metri quadrati su 10), ma la maggior parte dei detenuti deve utilizzare quelle al piano: sono quattro per 25 celle pari a 75 persone. E sono «docce fredde con un unico rivolo d’acqua», afferma l’avv. Elisabetta D’Errico, presidente della Camera penale di Bologna, rimarcando, a proposito di bagni, che vi si trovano «le derrate alimentari, frutta e verdura, stipate».


La grave carenza di educatori obbliga gli stessi agenti penitenziari a trasformarsi la sera in «psicologi verso i detenuti», sottolinea Alessandro De Federicis, responsabile dell’Osservatorio carcere UCPI. Gli educatori alla Dozza sono in tutto sette (tre dei quali al momento assenti): «devono seguire 480 detenuti, con un monte ore di 60 ore mensili pagate 17 euro lordi all’ora».


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